Una sera eravamo in quatro o cinque, da Cianin all'òsto a Castagnito. DEcidemmo per scherzo di andare al mare con i nostri carri e cavalli, e ritornare subito dopo. Nacque per scherzo quello che ora é la realtà dei CArtuné: le vie del sale con i cavalli e i carri. Ogni anno fra il 25 aprile ed il 1 maggio si riparte.
Vorrei offrirvi una piccola collezione dell mille foto ( un...mare) che ho fatto e soprattutto ho ricevuto da amici e da sconosciuti.
Ci sono anche i miei due piccoli bimbi che ora sono già grandicelli, e Alessandra che alle prime edizioni mi permise di chiudere Casa Scaparone (appena finita) per andare 10 giorni a cazzeggiare nelle langhe fino in liguria.
Di cose da scrivere ce ne sarebbe un altro bel ...mare, e forse, se ho trovato il tempo per fare questa collezione di foto, vuol dire che il tempo non é lontano.
"Mie neuit a rabel", potrebbe essere un buono titolo per una carrellata di ricordi sulle vie del sale: facce, odori, fatiche, festa, sonno, vino, vino, sole, pioggia, e dormire sulla paglia per dieci giorni. Un anno addirittura, giunto a casa, continuai a dormire fuori ( sul divano in veeranda) perché mi mancava l'aria di maggio, fresca di sera che diventa pungente al mattino.
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domenica 15 marzo 2009
mercoledì 11 marzo 2009
Non c'é lavoro?
Non c'é lavoro...
Noi continuiamo a non trovare nessuno che ci voglia aiutare a tirare giù le "sermente" (i rami già potati delle viti), ed a legare le viti al filo prima che germoglino...
Non troviamo... o meglio... non riusciamo a trovare uomini o donne italiani che non siano dei pensionati, e che vogliano provare a stare un poco in campagna, su delle bellissime colline, con un clima meraviglioso per 9 mesi all'anno,
e condvidere con noi la vita della campagna del 2000. Dico noi, includendo alcuni miei amici vignajoli, della zona.
Non é che la crisi non é ancora troppo dura da far si che qualcuno degli italiani in cerca di lavoro si metta a lavorare nelle vigne?
Io non ho dubbi: ho scelto l'artigianato e la campagna, con i suoi ritmi, il suo cambiamento di clima, le sue fasi alte e basse come la mia vita, e da decenni mi chiedo come questo si possa cambiare con un lavoro al chiuso in città...
questo non é probabilmente un pensiero condiviso dagli italiani...
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Noi continuiamo a non trovare nessuno che ci voglia aiutare a tirare giù le "sermente" (i rami già potati delle viti), ed a legare le viti al filo prima che germoglino...
Non troviamo... o meglio... non riusciamo a trovare uomini o donne italiani che non siano dei pensionati, e che vogliano provare a stare un poco in campagna, su delle bellissime colline, con un clima meraviglioso per 9 mesi all'anno,
e condvidere con noi la vita della campagna del 2000. Dico noi, includendo alcuni miei amici vignajoli, della zona.
Non é che la crisi non é ancora troppo dura da far si che qualcuno degli italiani in cerca di lavoro si metta a lavorare nelle vigne?
Io non ho dubbi: ho scelto l'artigianato e la campagna, con i suoi ritmi, il suo cambiamento di clima, le sue fasi alte e basse come la mia vita, e da decenni mi chiedo come questo si possa cambiare con un lavoro al chiuso in città...
questo non é probabilmente un pensiero condiviso dagli italiani...
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martedì 10 marzo 2009
Spring is startig today
Prima dla prima
Seurt da 'n ca: na firaja 'd vent, pì sùit che sò normal;
as podrìa dì la stessa bisa frèida, sempre, come da tròpi dì
ma a arciama un vej përfum, seugn sotrà, un son special...
Mach na bufà d'aria, an bela fin, un pò pì cëppa apress mesdì
che a subia e gieuga, e tut ël gris a arvita, coj sò rivolin
e noi lì, ëd longh a spòrze 'l nas, për sërché 'd nasté: ëd capì!
E sofiand, l'ariass vagabond, dla vita a anandia 'l virabarchin
n'autra stagion, na neuva vira: 'n anlup ëd pao e 'd gòj, an bon-a fin!
Peto 'd Pedre Leggi il resto del articolo......
Seurt da 'n ca: na firaja 'd vent, pì sùit che sò normal;
as podrìa dì la stessa bisa frèida, sempre, come da tròpi dì
ma a arciama un vej përfum, seugn sotrà, un son special...
Mach na bufà d'aria, an bela fin, un pò pì cëppa apress mesdì
che a subia e gieuga, e tut ël gris a arvita, coj sò rivolin
e noi lì, ëd longh a spòrze 'l nas, për sërché 'd nasté: ëd capì!
E sofiand, l'ariass vagabond, dla vita a anandia 'l virabarchin
n'autra stagion, na neuva vira: 'n anlup ëd pao e 'd gòj, an bon-a fin!
Peto 'd Pedre Leggi il resto del articolo......
mercoledì 4 marzo 2009
ADDIO, PARTIGIANI !
I valorosi soldati che difesero la loro casa, il loro re Ferdinando II di Borbone, e soprattutto le loro banche dal saccheggio dell'esercito di un bandito Garibaldi armato da una potenza europea (il piemonte di Cavour) sostenuta dall'Inghilterra, li chiamarono BRIGANTI: li fecero morire in prigione, o di fame al forte di Fenestrelle (8000 persone soltanto lì in quel forte). Briganti per AVER PERSO una guerra corrotta dall'inizio, pilotata dalle grandi potenze.
Quelle persone che soltanto 60 anni fà son entrate nelle case dei miei concittadini che sono ancora vivi, ad Alba, della quale memoria serbiamo un ricordo DIRETTO (perché ce lo hanno raccontato persone che sono ancora vive, oggi) che hanno rubato, picchiato e anche ucciso i loro connazionali fino a due anni dopo la guerra finita, che sono tutti ridiventati vergini dopo la fine della guerra, famosi e potenti uomini d'affari, li chiamano PARTIGIANI e COMANDANTI. Si sono trovati, loro malgrado, dalla parte vincente, determinata dalle grandi potenze.
Rivolgo loro un pensiero: qualcuno vi perdonerà, per quel che avete fatto, prima o poi, però dovreste smetterla con le bugie, sennò quel giorno non arriverà mai più!
La storia, implacabile, sta arrivando ai vostri calcagni, come un fantasma di un cane ancora inferocito, e sta iniziando a rosicchiare le vostre bugie, insieme a quelle dei Savoja disonesti, predatori del Sud, e degli alleati assassini e bugiardi, Garibaldi Giuseppe ex ladro di cavalli condannato in Piemonte a morte, insieme a Mazzini Giuseppe, e Nino Bixio, il più odiato militare della storia dela Sicilia, assassino impunito di povera gente.
SE FOSSI STATO UN PARTIGIANO in Piemonte, con tutte le mascalzonate che hanno combinato, me ne starei ben zitto e mi vergognerei di dirlo in giro.
Altro che medaglie!
Vediamo di risolverla in parole povere: come mai, come nei due casi sopracitati, se tu parli alle gente comune ti espone una versione, molto semplice, che arriva dal ricordo e dal passa parola, mentre poi se vai a vedere sui LIBRI (che sono sempre scritti da quelli che vincono) trovi tutte le Prose Epico-cavalleresche scritte da quelli che hanno vinto?
Perché cioé tutti al Sud sono convinti che l'aggressione del Piemonte, senza dichiarazione di guerra, nascondendosi dietro a un bandito Garibaldi, ( del quale fino a metà guerra Savoja negava la conoscenza), fu una vigliaccata, e l'inizio dell'impoverimento del sud: perché poi sui libri ch'é scritto il contrario?
Perché da quando sono bambino, non ho MAI, ma MAI, sentito la gente comune parlare bene di quello che hanno fatto i partigiani MAI SENTITO !? Caso particolare, potevi sentirne parlare bene, al massimo, da una persona che sotto sotto era intrigata in qualche partito politico, che era stata indottrinata su quel che bisognava dire e insegnare.. Eppure di parole ne ho fatte tante con la gente normale, accidenti: ho conosciuto centinaia di persone che hanno vissuto la guerra, e mi sono sempre interessato alla questione. Tutti rispondono allo stesso modo: quando si lasciano scappare una parola in più, poi ci ripensano e entrano nell'omertà: un silenzio che si capisce: sanno che comunque é meglio non dire e lasciare perdere... loro sono della gente comune.
Io sono nato 20 anni dopo la guerra. Leggendo la storia mi sono reso conto che 20 anni per parlare di una guerra CIVILE fratricida sono molto pochi. Se cerco di ricordare quanti mi parlarono per ESPERIENZA DIRETTA dei partigiani, riesco a ricordarlo:
- I tedeschi uccisero un tale Ballario in una borgata del paese dove vivevo, perché passando con la bicicletta lasciò intravedere la fondina della pistola.
- Due partigiani furono catturati e uccisi a botte nel cortile delle scuole elementari he frequentavo.
- I partigiani entrano due volte a casa di mio nonno, per un sequestro "per la nazione" e gli portano via tutto quello che c'é, coperte, cibo, e mio nonno e suo fratello contro il muro con le mani alzate e mia madre chiusa con le sorelle nella camera; mio nonno non ha mai detto chi fosse stato il partigiano del sua paese che entrò in casa, mia madre lo sà ancora oggi ma non lo dice: ricordo un nome di uno, un certo "lino", ma nessuno vuole parlare, e soprattutto nessuno mai nessuno ha negato.
- I tedeschi catturarono 15 persone per fucilarle, a causa di un attentato partigiano, e fra queste c'era l'altro mio nonno, che me lo raccontò, e che fu poi liberato grazie al prete del paese.
- Dopo la guerra, a Bra, i partigiani catturarono i presunti "servi" del governo e dei tedeschi. Senza processo, li portarono nella Zizzola, (che adesso é il monumento di Bra!) e dala finestra li freddarono come dei cani, sempre che ai cani uno si prenda la pena di fare una cosa così; quello che sparò, un braidese, deve essere morto solo pochissimi anni fa, forse dopo il 2000; cambiò due caricatori perché qualcuno dei suoi concittadini Braidesi cocciuto continuava a lamentarsi e non voleva morire.
Fra le vittime c'erano tre componenti di una famiglia cha aveva l'osteria e albergo in piazza a Bra, e che si erano sbattuti a fare da intermediario fra i tedeschi (che erano ospiti, credo paganti, dell'albergo, in quanto non potevano dormire sugli alberi o nelle piazze per degli anni, i tedeschi) e la gente che veniva ad implorarli di far liberare questo e quel suo figlio o marito. La signora dell'albergo, la sera, fra un bicchiere e l'altro, andava ad intercedere presso il comandante tedesco, come le donne e mamme sanno fare, per salvare la pelle a qualcuno, con i padri le madri fuori della porta di servizio a piangere e a supplicare. Uccisero anche loro, i partigiani di Bra, capitanati dal capitano "Della Rocca" e la lor bella figlia di 18 anni; non solo, il testimone che mi parlò più volte ( e che vive tuttora a Bra, e posso fare nome e cognome a chiunque desideri intervistarlo) la vide, la figlia 18enne, all'obitorio dove i partigiani avevano abusato di lei, da morta, e avevano infilato una bottiglia fino al fondo, nelle sue parti intime, lasciandola gambe penzoloni nella cassa, con il culo della bottiglia in bella vista fra le gambe. Lui chiuse le gambe e la cassa, tirò due Cristi e ando a vomitare di fuori dell'obitorio.
- A Scaparoni, dove vivo ora, la signora che abita tuttora davanti a casa mia, non parla, ma si lascia scappare le frasi:" i partigian a l'ha mach fà massé dla gent": lo zio di Gnomo, in questo paese, povero contadino, scese di notte per l'insistenza dei colpi sull'uscio di casa:"aprite, aprite"; lui non voleva più aprire perché non era la prima volta che i partigiani venivano nelle cascine dei deboli per rifornirsi di cibo; esitò; gli spararono; morì dietro l'uscio (300 metri da casa mia). Il guaio e che qui conosciamo tutti il capo banda che sparò o ordinò lo sparo, ed era un rispettato commerciante di Alba; tutti sanno, nessuno parla.
Se nessuno parla, quelli che parlano, chi sono? J'Aso 'd Cavour! gli asini di Cavour, per chi non conosca il proverbio piemontese, "ai laudo nen j'autri; as laudo da lor!", cioé se non li lodano gli altri, si lodano da loro! Si mettono il fazzoletto rosso al collo, senza saper cosa fosse, e vanno a cantare Bella Ciao insieme al prete combattente vescovo di Alba che dà le benedizioni ai partigiani che stecchirono tutti questi loro concittadini deboli e ignoranti. Pazzesco!
La povera gente comune ha deciso di lasciare perdere, come sta lasciando perdere oggi di fronte alle angherie di chi ha il potere e non o vuole mollare...
QUELLI CHE NON LASCIANO PERDERE sono quelli che riempiono i giornali, oltre che i libri di storia, dei loro MITI preconfezionati a tavolino, mito dell'eroe salvatore della patria. Poi uno fà un film su Fenoglio, su quello che lui (che non era politicizzato) aveva pensato della resistenza, e il film lo bocciano subito, ancora prima di uscire. Quel film é bellissimo, perché sembra.....vero! Il titolo: "Il partigiano Johnny". giorgio Bocca, su Repubblica, lo ha criticato e bocciato subito, tre giorni prima che il film fosse proiettato. Giorgio Bocca é uno di quelli che fà il gagliardo, e prepotente, con il mito dell'eroe salva patria: uno di quelli che ha fatto il gagliardo a sparare alle spalle dei tedeschi, quando se ne stavano andando perché gli americani erano ad Alessandria ( mica perché si erano spaventati di lui che gli sparava con il flober dalle finestre! o con la fionda!). I tedeschi, teutonici sanguanari e feroci, era meglio lasciarli tornare a casa loro, tanto era questione di pochi giorni e se ne stavano andando pressati dagli alleati; altro che farli incazzare e vendicarsi con la povera gente del posto...
Il film ce l'ho in vendita nella bottega per chi lo cercasse, é difficile da reperire).
Bahh. lasciamo perdere? anche noi? ma sì,lasciamo perdere.
Se senti uno che fa il gagliardo sulla resistenza, hai tre possibilità: é uno dei banditi, é un politico, oppure ci é cascato, come ci siamo cascati in molti, da bambini, (viva quà viva là, gli eroi, la patria, il risorgimento), io compreso.
P.S. Ho cantato "bella Ciao" con la maestra, alle elementari, che me l'ha insegnata perché andava di moda parlare dei partigiani negli anni 60, ai bambini; probabilmente la maestra aveva subito pressioni "istituzionali" dai superiori per sensibilizzare gli alunni sin da piccoli alla "tenuta dei ranghi" di una patria che già allora faceva acqua come un colapasta scassato. La maestra aveva però una grande passione per il canto, il che la scagiona parzialmente dall'avermi fatto cantare "Bella Ciao" senza conoscerne il significato; d'altronde mi ha confessato in segreto di avere nostalgia per i bei canti di quando era bambina, alla "colonia elioterapica", una specie di "estate ragazzi" fascista dove era solita cantare alcune canzoni,così, solo per la bellezza delle note e delle parole combinate, senza analizzarne il significato ( come faccio io per le duecento canzoni di Baglioni che ho appicciacate in memoria).
"Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza"; "Sole che sorgi, libero e giocondo"; canzoni felici, insegnate ai bambini per far loro amare il grande fratello ed accettare la vita da poveri cristi, come lei fece con noi e il "Bella Ciao" negli anni 60, per decisione del suo direttore didattico, impegnato dal governo a far accettare un calderone di disonesti e sciaguati italici del dopoguerra.
So che per lei erano canzoni e basta, cantate per il gusto di cantare qualcosa di bello. So che é così perché lo é anche per me.
La maestra era mia madre.
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Quelle persone che soltanto 60 anni fà son entrate nelle case dei miei concittadini che sono ancora vivi, ad Alba, della quale memoria serbiamo un ricordo DIRETTO (perché ce lo hanno raccontato persone che sono ancora vive, oggi) che hanno rubato, picchiato e anche ucciso i loro connazionali fino a due anni dopo la guerra finita, che sono tutti ridiventati vergini dopo la fine della guerra, famosi e potenti uomini d'affari, li chiamano PARTIGIANI e COMANDANTI. Si sono trovati, loro malgrado, dalla parte vincente, determinata dalle grandi potenze.
Rivolgo loro un pensiero: qualcuno vi perdonerà, per quel che avete fatto, prima o poi, però dovreste smetterla con le bugie, sennò quel giorno non arriverà mai più!
La storia, implacabile, sta arrivando ai vostri calcagni, come un fantasma di un cane ancora inferocito, e sta iniziando a rosicchiare le vostre bugie, insieme a quelle dei Savoja disonesti, predatori del Sud, e degli alleati assassini e bugiardi, Garibaldi Giuseppe ex ladro di cavalli condannato in Piemonte a morte, insieme a Mazzini Giuseppe, e Nino Bixio, il più odiato militare della storia dela Sicilia, assassino impunito di povera gente.
SE FOSSI STATO UN PARTIGIANO in Piemonte, con tutte le mascalzonate che hanno combinato, me ne starei ben zitto e mi vergognerei di dirlo in giro.
Altro che medaglie!
Vediamo di risolverla in parole povere: come mai, come nei due casi sopracitati, se tu parli alle gente comune ti espone una versione, molto semplice, che arriva dal ricordo e dal passa parola, mentre poi se vai a vedere sui LIBRI (che sono sempre scritti da quelli che vincono) trovi tutte le Prose Epico-cavalleresche scritte da quelli che hanno vinto?
Perché cioé tutti al Sud sono convinti che l'aggressione del Piemonte, senza dichiarazione di guerra, nascondendosi dietro a un bandito Garibaldi, ( del quale fino a metà guerra Savoja negava la conoscenza), fu una vigliaccata, e l'inizio dell'impoverimento del sud: perché poi sui libri ch'é scritto il contrario?
Perché da quando sono bambino, non ho MAI, ma MAI, sentito la gente comune parlare bene di quello che hanno fatto i partigiani MAI SENTITO !? Caso particolare, potevi sentirne parlare bene, al massimo, da una persona che sotto sotto era intrigata in qualche partito politico, che era stata indottrinata su quel che bisognava dire e insegnare.. Eppure di parole ne ho fatte tante con la gente normale, accidenti: ho conosciuto centinaia di persone che hanno vissuto la guerra, e mi sono sempre interessato alla questione. Tutti rispondono allo stesso modo: quando si lasciano scappare una parola in più, poi ci ripensano e entrano nell'omertà: un silenzio che si capisce: sanno che comunque é meglio non dire e lasciare perdere... loro sono della gente comune.
Io sono nato 20 anni dopo la guerra. Leggendo la storia mi sono reso conto che 20 anni per parlare di una guerra CIVILE fratricida sono molto pochi. Se cerco di ricordare quanti mi parlarono per ESPERIENZA DIRETTA dei partigiani, riesco a ricordarlo:
- I tedeschi uccisero un tale Ballario in una borgata del paese dove vivevo, perché passando con la bicicletta lasciò intravedere la fondina della pistola.
- Due partigiani furono catturati e uccisi a botte nel cortile delle scuole elementari he frequentavo.
- I partigiani entrano due volte a casa di mio nonno, per un sequestro "per la nazione" e gli portano via tutto quello che c'é, coperte, cibo, e mio nonno e suo fratello contro il muro con le mani alzate e mia madre chiusa con le sorelle nella camera; mio nonno non ha mai detto chi fosse stato il partigiano del sua paese che entrò in casa, mia madre lo sà ancora oggi ma non lo dice: ricordo un nome di uno, un certo "lino", ma nessuno vuole parlare, e soprattutto nessuno mai nessuno ha negato.
- I tedeschi catturarono 15 persone per fucilarle, a causa di un attentato partigiano, e fra queste c'era l'altro mio nonno, che me lo raccontò, e che fu poi liberato grazie al prete del paese.
- Dopo la guerra, a Bra, i partigiani catturarono i presunti "servi" del governo e dei tedeschi. Senza processo, li portarono nella Zizzola, (che adesso é il monumento di Bra!) e dala finestra li freddarono come dei cani, sempre che ai cani uno si prenda la pena di fare una cosa così; quello che sparò, un braidese, deve essere morto solo pochissimi anni fa, forse dopo il 2000; cambiò due caricatori perché qualcuno dei suoi concittadini Braidesi cocciuto continuava a lamentarsi e non voleva morire.
Fra le vittime c'erano tre componenti di una famiglia cha aveva l'osteria e albergo in piazza a Bra, e che si erano sbattuti a fare da intermediario fra i tedeschi (che erano ospiti, credo paganti, dell'albergo, in quanto non potevano dormire sugli alberi o nelle piazze per degli anni, i tedeschi) e la gente che veniva ad implorarli di far liberare questo e quel suo figlio o marito. La signora dell'albergo, la sera, fra un bicchiere e l'altro, andava ad intercedere presso il comandante tedesco, come le donne e mamme sanno fare, per salvare la pelle a qualcuno, con i padri le madri fuori della porta di servizio a piangere e a supplicare. Uccisero anche loro, i partigiani di Bra, capitanati dal capitano "Della Rocca" e la lor bella figlia di 18 anni; non solo, il testimone che mi parlò più volte ( e che vive tuttora a Bra, e posso fare nome e cognome a chiunque desideri intervistarlo) la vide, la figlia 18enne, all'obitorio dove i partigiani avevano abusato di lei, da morta, e avevano infilato una bottiglia fino al fondo, nelle sue parti intime, lasciandola gambe penzoloni nella cassa, con il culo della bottiglia in bella vista fra le gambe. Lui chiuse le gambe e la cassa, tirò due Cristi e ando a vomitare di fuori dell'obitorio.
- A Scaparoni, dove vivo ora, la signora che abita tuttora davanti a casa mia, non parla, ma si lascia scappare le frasi:" i partigian a l'ha mach fà massé dla gent": lo zio di Gnomo, in questo paese, povero contadino, scese di notte per l'insistenza dei colpi sull'uscio di casa:"aprite, aprite"; lui non voleva più aprire perché non era la prima volta che i partigiani venivano nelle cascine dei deboli per rifornirsi di cibo; esitò; gli spararono; morì dietro l'uscio (300 metri da casa mia). Il guaio e che qui conosciamo tutti il capo banda che sparò o ordinò lo sparo, ed era un rispettato commerciante di Alba; tutti sanno, nessuno parla.
Se nessuno parla, quelli che parlano, chi sono? J'Aso 'd Cavour! gli asini di Cavour, per chi non conosca il proverbio piemontese, "ai laudo nen j'autri; as laudo da lor!", cioé se non li lodano gli altri, si lodano da loro! Si mettono il fazzoletto rosso al collo, senza saper cosa fosse, e vanno a cantare Bella Ciao insieme al prete combattente vescovo di Alba che dà le benedizioni ai partigiani che stecchirono tutti questi loro concittadini deboli e ignoranti. Pazzesco!
La povera gente comune ha deciso di lasciare perdere, come sta lasciando perdere oggi di fronte alle angherie di chi ha il potere e non o vuole mollare...
QUELLI CHE NON LASCIANO PERDERE sono quelli che riempiono i giornali, oltre che i libri di storia, dei loro MITI preconfezionati a tavolino, mito dell'eroe salvatore della patria. Poi uno fà un film su Fenoglio, su quello che lui (che non era politicizzato) aveva pensato della resistenza, e il film lo bocciano subito, ancora prima di uscire. Quel film é bellissimo, perché sembra.....vero! Il titolo: "Il partigiano Johnny". giorgio Bocca, su Repubblica, lo ha criticato e bocciato subito, tre giorni prima che il film fosse proiettato. Giorgio Bocca é uno di quelli che fà il gagliardo, e prepotente, con il mito dell'eroe salva patria: uno di quelli che ha fatto il gagliardo a sparare alle spalle dei tedeschi, quando se ne stavano andando perché gli americani erano ad Alessandria ( mica perché si erano spaventati di lui che gli sparava con il flober dalle finestre! o con la fionda!). I tedeschi, teutonici sanguanari e feroci, era meglio lasciarli tornare a casa loro, tanto era questione di pochi giorni e se ne stavano andando pressati dagli alleati; altro che farli incazzare e vendicarsi con la povera gente del posto...
Il film ce l'ho in vendita nella bottega per chi lo cercasse, é difficile da reperire).
Bahh. lasciamo perdere? anche noi? ma sì,lasciamo perdere.
Se senti uno che fa il gagliardo sulla resistenza, hai tre possibilità: é uno dei banditi, é un politico, oppure ci é cascato, come ci siamo cascati in molti, da bambini, (viva quà viva là, gli eroi, la patria, il risorgimento), io compreso.
P.S. Ho cantato "bella Ciao" con la maestra, alle elementari, che me l'ha insegnata perché andava di moda parlare dei partigiani negli anni 60, ai bambini; probabilmente la maestra aveva subito pressioni "istituzionali" dai superiori per sensibilizzare gli alunni sin da piccoli alla "tenuta dei ranghi" di una patria che già allora faceva acqua come un colapasta scassato. La maestra aveva però una grande passione per il canto, il che la scagiona parzialmente dall'avermi fatto cantare "Bella Ciao" senza conoscerne il significato; d'altronde mi ha confessato in segreto di avere nostalgia per i bei canti di quando era bambina, alla "colonia elioterapica", una specie di "estate ragazzi" fascista dove era solita cantare alcune canzoni,così, solo per la bellezza delle note e delle parole combinate, senza analizzarne il significato ( come faccio io per le duecento canzoni di Baglioni che ho appicciacate in memoria).
"Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza"; "Sole che sorgi, libero e giocondo"; canzoni felici, insegnate ai bambini per far loro amare il grande fratello ed accettare la vita da poveri cristi, come lei fece con noi e il "Bella Ciao" negli anni 60, per decisione del suo direttore didattico, impegnato dal governo a far accettare un calderone di disonesti e sciaguati italici del dopoguerra.
So che per lei erano canzoni e basta, cantate per il gusto di cantare qualcosa di bello. So che é così perché lo é anche per me.
La maestra era mia madre.
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domenica 1 marzo 2009
WELCOME IN ITALY, for turist and italians
Welcome in Italy.
If you are trying to understand Italy, you nee to know the real History.
This i one of my favourit artist, in a true and fantastic song.
Questo è il resto del articolo
questa é la storia che purtroppo io non ho studiato a scuola, perché quando io facevo le elementari in quel tempo il governo era impegnato a fare i condomini per gli operai di Agnelli, che adesso staranno senza lavoro con la casa integrazione che io dovrò pagare, e non aveva tempo per far studiare la storia dai professori, che stavano scioperando, tra l'altro, con gli studenti, che adesso sono tutti professori, e che neanche loro la storia la conoscono: mi chiedo allora: perché la storia la conosco solo io che sono un umile contadino, e non trovo mai nessuno che mi contraddica? Perché nessuno in questo paese mi sa mai rispondo quando dico che abbiamo intitolato le strade di TUTTI i paesi e città a due-tre manigoldi, banditi, pendagli da forca, assassini, ladri come Cavour, Vittorio Emanuele, Bixio? Sanguinari assassini senza processo? E nessuno mai ti risponde che non é vero. Boh...
di CARLO COPPOLA
Molti storici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hanno caratterizzato l'unità d'Italia dimostrando, con certezza, che la cultura di "regime" stese, dai primi anni dell'unità, un velo pietoso sulle vicende "risorgimentali" e sul loro reale evolversi.
Tutte le forme d'influenza sulla pubblica opinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta dei Borboni o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di toni positivi.
Si cercò di rendere patetica e ridicola la figura di Francesco II - il "Franceschiello" della vulgata – arrivando alla volgarità di far fare dei fotomontaggi della Regina Maria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti i governi d'Europa e a Francesco II stesso, il quale, figlio di una "santa" e allevato dai preti, con ogni probabilità non aveva mai visto sua moglie nuda nemmeno dal vivo. Risultò, in seguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia di fotografi di dubbia fama, tali Diotallevi, che confessarono di aver agito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscitò scalpore e, benché falsa, servì allo scopo di incrinare la reputazione dei due sovrani in esilio.
La memoria di Re Ferdinando II, padre di Francesco, fu infangata da accuse di brutalità e ferocia: gli fu scritto dal Gladstone – interessatamente - d'essere stato - lui cattolicissimo - "la negazione di Dio".
Soprattutto si minimizzò l'entità della ribellione che infiammava tutto il l'ex Regno di Napoli, riducendolo a "volgare brigantaggio", come si legge nei giornali dell'epoca (giornali, peraltro, pubblicati solo al nord in quanto la libertà di stampa fu abolita al sud fino al 31 dicembre 1865); nasce così la leggenda risorgimentale della "cattiveria" dei Borboni contrapposta alla "bontà" dei piemontesi e dei Savoia che riempirà le pagine dei libri scolastici.
Restano a chiarire le motivazioni che hanno indotto gli ambienti accademici del Regno d'Italia prima, del periodo fascista e della Repubblica poi, a mantenere fin quasi ai giorni nostri, una versione dei fatti così lontana dalla verità.
A mio parere le ragioni sono composite, ma riconducibili ad un concetto che il D'Azeglio enunciò nel secolo scorso "Abbiamo fatto l'Italia, adesso bisogna fare gli Italiani", e possono essere esemplificate nel seguente modo:
a. Il mondo della cultura post-unitaria si adoperò per sradicare dalla coscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevano diventare italiane, il modo piratesco e cruentisissimo con il quale l'unità si ottenne, ammantando di leggende "l'eroico" operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto, schiacciati prima o poi dall'esercito borbonico), sminuendo il fatto che la reale conquista del meridione fu ottenuta, in realtà, dall'esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile - nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte - e tacendo, soprattutto, la circostanza che le popolazioni del sud, salvo una minoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessuna voglia di essere "liberate" e anzi reagirono violentemente contro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori.
Per contro si diede della deposta monarchia borbone un'immagine traviata e distorta, e del '700 e '800 napoletano la visione, bugiarda, di un periodo sinistro d'oppressione e miseria dal quale le genti del sud si emanciperanno, finalmente, con l'unità, liberate dai garibaldini e dai piemontesi dalla schiavitù dello "straniero".
b. Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare del periodo fascista, proteso com'era al perseguimento di valori nazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe, per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo "revisionista", riconducendo anzi l'origine della nazione al periodo romano e saltando a piè pari un millennio di storia meridionale. Il governo fascista ebbe l'indiscutibile merito di cercare di innescare un meccanismo di recupero economico della realtà meridionale, ma da un punto di vista storico insabbiò ancor di più la questione meridionale, ritenendola inutile e dannosa nell'impianto culturale del regime.
c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra, mantenne intatto, in sostanza, l'impianto di pubblica istruzione del periodo fascista.
La nazione emergeva, non bisogna dimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lotta avevano, con la Repubblica di Salò, diviso in due l'Italia, il movimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (erano gli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente il momento di sollevare dubbi sulla veridicità della storia risorgimentale e alimentare così tesi separatiste.
Si è arrivati in questo modo ai giorni nostri, dove ancora adesso, in molti libri scolastici, la storia d'Italia e del meridione in particolare è vergognosamente mistificata.
In campo economico la visione che si dette del Regno delle due Sicilie fu, se possibile, ancora più lontana dalla realtà effettuale.
Il Sud borbonico, come ci riporta Nicola Zitara era: "Un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piú avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d'industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). (...) Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell'economia nazionale".
In realtà il problema centrale dell'intera vicenda è che nel 1860 l'Italia si fece, ma si fece malissimo. Al di là delle orribili stragi che l'unità apportò, le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima i guasti di un processo di unificazione politica dell'Italia che fu attuato senza tenere in minimo conto le diversità, le esigenze economiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivano aggregate.
La formula del "piemontismo", vale a dire della mera e pedissequa estensione degli ordinamenti giuridici ed economici del Regno di Piemonte all'intero territorio italiano, che fu adottata dal governo, e i provvedimenti "rapina" che si fecero ai danni dell'erario del Regno di Napoli, determinarono un'immediata e disastrosa crisi del sistema sociale ed economico nei territori dell'ex Regno di Napoli e il suo irreversibile collasso.
D'altronde le motivazioni politiche che avevano portato all'unità erano – come sempre accade – in subordine rispetto a quelle economiche.
Se si parte dall'assunto, ampiamente dimostrato, che lo stato finanziario del meridione era ben solido nel 1860, si comprendono meglio i meccanismi che hanno innescato la sua rovina.
Nel quadro della politica liberista impostata da Cavour, il paese meridionale, con i suoi quasi nove milioni di abitanti, con il suo notevole risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva un boccone prelibato.
L'abnorme debito pubblico dello stato piemontese procurato dalla politica bellicosa ed espansionista del Cavour (tre guerre in dieci anni!) doveva essere risanato e la bramosia della classe borghese piemontese per la quale le guerre si erano fatte (e alla quale il Cavour stesso apparteneva a pieno titolo) doveva essere, in qualche modo, soddisfatta.
Descrivere vicende economiche e legate al mondo delle banche e della finanza, può risultare al lettore, me ne rendo conto, noioso, ma non è possibile comprendere alcune vicende se ne conoscono le intime implicazioni.
Lo stato sabaudo si era dotato di un sistema monetario che prevedeva l'emissione di carta moneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d'oro e d'argento insieme alle cosiddette "fedi di credito" e alle "polizze notate" alle quali però corrispondeva l'esatto controvalore in oro versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie.
Il problema piemontese consisteva nel mancato rispetto della "convertibilità" della propria moneta, vale a dire che per ogni lira di carta piemontese non corrispondeva un equivalente valore in oro versato presso l'istituto bancario emittente, ciò dovuto alla folle politica di spesa per gli armamenti dello stato.
In parole povere la valuta piemontese era carta straccia, mentre quella napolitana era solidissima e convertibile per sua propria natura (una moneta borbonica doveva il suo valore a se stessa in quanto la quantità d'oro o d'argento in essa contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale).
Quindi cita ancora lo Zitara: "Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete d'oro e d'argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d'emissione sarda - che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni - avrebbe potuto costruire un castello di cartamoneta bancaria alto tre miliardi. Come il Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino (titolari e fondatori della banca, che sarebbe poi divenuta Banca d'Italia) non tessevano e non filavano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l'unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'erano messi".
A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete per trasformarle in carta moneta così come previsto dall'ordinamento piemontese, poiché in tal modo i banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e avrebbero potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano (benché ai due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancora per qualche anno). Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre passò nelle casse piemontesi.
Tuttavia nella riserva della nuova Banca d'Italia, non risultò esserci tutto l'oro incamerato (si vedano a proposito gli Atti Parlamentari dell'epoca).
Evidentemente parte di questo aveva preso altre vie, che per la maggior parte furono quelle della costituzione e finanziamento di imprese al nord operato da nuove banche del nord che avrebbero investito al nord, ma con gli enormi capitali rastrellati al sud.
Ancora adesso, a ben vedere, il sistema creditizio del meridione risente dell'impostazione che allora si diede. Gli istituti di credito adottano ancora oggi politiche ben diverse fra il nord ed il sud, effettuando la raccolta del risparmio nel meridione e gli investimenti nel settentrione.
Il colpo di grazia all'economia del sud fu dato sommando il debito pubblico piemontese, enorme nel 1859 (lo stato più indebitato d'Europa), all'irrilevante debito pubblico del Regno delle due Sicilie, dotato di un sistema di finanza pubblica che forse rigidamente poco investiva, ma che pochissimo prelevava dalle tasche dei propri sudditi. Il risultato fu che le popolazioni e le imprese del Sud, dovettero sopportare una pressione fiscale enorme, sia per pagare i debiti contratti dal governo Savoia nel periodo preunitario (anche quelli per comprare quei cannoni a canna rigata che permisero la vittoria sull'esercito borbonico), sia i debiti che il governo italiano contrarrà a seguire: esso in una folle corsa all''armamento, caratterizzato da scandali e corruzione, diventò, con i suoi titoli di stato, lo zimbello delle piazze economiche d'Europa.
Scrive ancora lo storico Zitara: "La retorica unitaria, che coprì interessi particolari, non deve trarre in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all'intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l'uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un'autosconfessione. Quando, alle fine, quelle "innovazioni", vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo.
Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non avevano bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate.
L'agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all'esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò una crescita smodata e incontrollabile e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali".
Per contro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastri economici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana, principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogi per l'assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo al Nord mentre il Sud finì per pagare sia le spese della guerra d'annessione, sia i costi divenuti astronomici dell'ammodernamento del settentrione.
Il governo di Torino adottò nei confronti dell'ex Regno di Napoli una politica di mero sfruttamento di tipo "colonialista" tanto da far esclamare al deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: "Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala".
La politica dissennatamente liberistica del governo unitario portò, peraltro, la neonata e debolissima economia dell'Italia unita a un crack finanziario.
Le grandi società d'affari francesi ed inglesi fecero invece, attraverso i loro mediatori piemontesi, affari d'oro.
Nel 1866, nonostante il considerevole apporto aureo delle banche del sud, la moneta italiana fu costretta al "corso forzoso" cioè fu considerata dalle piazze finanziarie inconvertibile in oro. Segno inequivocabile di uno stato delle finanze disastroso e di un'inflazione stellare. I titoli di stato italiani arrivarono a valere due terzi del valore nominale, quando quelli emessi dal governo borbonico avevano un rendimento medio del 18%.
Ci vorranno molti decenni perché l'Italia postunitaria, dal punto di vista economico, possa riconquistare una qualche credibilità.
L'odierna arretratezza economica del Meridione è figlia di quelle scelte scellerate e di almeno un cinquantennio di politica economica dissennata e assolutamente dimentica dell'ex Regno di Napoli da parte dello stato unitario.
Si dovrà aspettare il periodo fascista per vedere intrapresa una qualche politica di sviluppo del Meridione con un intervento strutturale sul suo territorio attraverso la costruzione di strade, scuole, acquedotti (quello pugliese su tutti), distillerie ed opifici, la ripresa di una politica di bonifica dei fondi agricoli, il completamento di alcune linee ferroviarie come la Foggia-Capo di Leuca, - iniziata da Ferdinando II di Borbone, dimenticata dai governi sabaudi e finalmente terminata da quello fascista.
Ma il danni e i disastri erano già fatti: una vera economia nel sud non esisteva più e le sue forze più giovani e migliori erano emigrate all'estero.
Nonostante gli interventi negli anni '50 del XX secolo con il piano Marshall (peraltro con nuove sperequazioni tra nord e sud), '60 e '70 con la Cassa per il Mezzogiorno e l'aiuto economico dell'Unione Europea ai giorni nostri, il divario che separa il Sud dal resto d'Italia è ancora notevole.
La popolazione dell'ex Regno di Napoli, falcidiata dagli eccidi del periodo del "brigantaggio", stremata da anni di guerra, di devastazioni e nefandezze d'ogni genere, per sopravvivere, darà vita alla grandiosa emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell''800, che continuerà, con una breve inversione di tendenza nel periodo fascista e una diversificazione delle mete che diventeranno il Belgio, la Germania, la Svizzera, fin quasi ai giorni nostri.
Il Sud pagherà, ancora una volta, con il flusso finanziario generato dal lavoro e dal sacrificio degli emigranti meridionali, lo sviluppo dell'Italia industriale.
Ritengo, in conclusione, che sia un diritto delle gente meridionale riappropriarsi di quel pezzo di storia patria che dopo il 1860 le fu strappato e un dovere del corpo insegnanti dello stato favorire un'analisi storica più oggettiva di quei fatti che tanto peso hanno avuto ed hanno ancora nello sviluppo sociale del Paese, anche attraverso una scelta dei testi scolastici più oculata ed imparziale.
La guerra fra il nord ed il sud d'Italia non si combatte più sui campi di battaglia del Volturno, del Garigliano, sugli spalti di Gaeta o nelle campagne infestate dai "briganti", ma non per questo è meno viva; continua ancora oggi sul terreno di una cultura storica retriva e bugiarda che, alimentando una visione del sud "geneticamente" arretrato, produce un'ulteriore frattura tra due "etnie" che non si sono amate mai.
Il dibattito ancora aperto e vivace sull'ipotesi di una Italia federalista, i toni accesi del Partito della Lega Nord, una certa avversione, subdola ma reale, tra la gente del nord e quella del sud, nonostante il "rimescolamento" dovuto all'emigrazione interna, testimoniano quanto queste problematiche, nate nel 1860, siano ancora attualissime.
Oggi l'unità dello stato, in un periodo dove il progresso passa attraverso enti politico-economici sopranazionali come la Comunità Europea, è certamente un valore da salvaguardare, ma al meridione è dovuta una politica ed una attenzione particolari, una politica legata ai suoi effettivi interessi, che valorizzi le sue enormi risorse e assecondi le sue vocazioni, a parziale indennizzo dei disastri e delle ingiustizie che l'unità vi ha apportato.
L'enorme numero di morti che costò l'annessione, i 23 milioni di emigrati dal meridione dell'ultimo secolo, che hanno sommamente contribuito, a costo di immani sforzi, alla realizzazione di un'Italia moderna e vivibile, meritano quel concreto riconoscimento e quel rispetto che per 140 anni lo Stato, attraverso una cultura storica mendace, gli ha negato e che oggi gli eredi della Nazione Napoletana reclamano.
di CARLO COPPOLA
"Controstoria dell'Unità d'Italia"
M.C.E. Editore
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If you are trying to understand Italy, you nee to know the real History.
This i one of my favourit artist, in a true and fantastic song.
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questa é la storia che purtroppo io non ho studiato a scuola, perché quando io facevo le elementari in quel tempo il governo era impegnato a fare i condomini per gli operai di Agnelli, che adesso staranno senza lavoro con la casa integrazione che io dovrò pagare, e non aveva tempo per far studiare la storia dai professori, che stavano scioperando, tra l'altro, con gli studenti, che adesso sono tutti professori, e che neanche loro la storia la conoscono: mi chiedo allora: perché la storia la conosco solo io che sono un umile contadino, e non trovo mai nessuno che mi contraddica? Perché nessuno in questo paese mi sa mai rispondo quando dico che abbiamo intitolato le strade di TUTTI i paesi e città a due-tre manigoldi, banditi, pendagli da forca, assassini, ladri come Cavour, Vittorio Emanuele, Bixio? Sanguinari assassini senza processo? E nessuno mai ti risponde che non é vero. Boh...
di CARLO COPPOLA
Molti storici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hanno caratterizzato l'unità d'Italia dimostrando, con certezza, che la cultura di "regime" stese, dai primi anni dell'unità, un velo pietoso sulle vicende "risorgimentali" e sul loro reale evolversi.
Tutte le forme d'influenza sulla pubblica opinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta dei Borboni o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di toni positivi.
Si cercò di rendere patetica e ridicola la figura di Francesco II - il "Franceschiello" della vulgata – arrivando alla volgarità di far fare dei fotomontaggi della Regina Maria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti i governi d'Europa e a Francesco II stesso, il quale, figlio di una "santa" e allevato dai preti, con ogni probabilità non aveva mai visto sua moglie nuda nemmeno dal vivo. Risultò, in seguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia di fotografi di dubbia fama, tali Diotallevi, che confessarono di aver agito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscitò scalpore e, benché falsa, servì allo scopo di incrinare la reputazione dei due sovrani in esilio.
La memoria di Re Ferdinando II, padre di Francesco, fu infangata da accuse di brutalità e ferocia: gli fu scritto dal Gladstone – interessatamente - d'essere stato - lui cattolicissimo - "la negazione di Dio".
Soprattutto si minimizzò l'entità della ribellione che infiammava tutto il l'ex Regno di Napoli, riducendolo a "volgare brigantaggio", come si legge nei giornali dell'epoca (giornali, peraltro, pubblicati solo al nord in quanto la libertà di stampa fu abolita al sud fino al 31 dicembre 1865); nasce così la leggenda risorgimentale della "cattiveria" dei Borboni contrapposta alla "bontà" dei piemontesi e dei Savoia che riempirà le pagine dei libri scolastici.
Restano a chiarire le motivazioni che hanno indotto gli ambienti accademici del Regno d'Italia prima, del periodo fascista e della Repubblica poi, a mantenere fin quasi ai giorni nostri, una versione dei fatti così lontana dalla verità.
A mio parere le ragioni sono composite, ma riconducibili ad un concetto che il D'Azeglio enunciò nel secolo scorso "Abbiamo fatto l'Italia, adesso bisogna fare gli Italiani", e possono essere esemplificate nel seguente modo:
a. Il mondo della cultura post-unitaria si adoperò per sradicare dalla coscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevano diventare italiane, il modo piratesco e cruentisissimo con il quale l'unità si ottenne, ammantando di leggende "l'eroico" operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto, schiacciati prima o poi dall'esercito borbonico), sminuendo il fatto che la reale conquista del meridione fu ottenuta, in realtà, dall'esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile - nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte - e tacendo, soprattutto, la circostanza che le popolazioni del sud, salvo una minoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessuna voglia di essere "liberate" e anzi reagirono violentemente contro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori.
Per contro si diede della deposta monarchia borbone un'immagine traviata e distorta, e del '700 e '800 napoletano la visione, bugiarda, di un periodo sinistro d'oppressione e miseria dal quale le genti del sud si emanciperanno, finalmente, con l'unità, liberate dai garibaldini e dai piemontesi dalla schiavitù dello "straniero".
b. Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare del periodo fascista, proteso com'era al perseguimento di valori nazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe, per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo "revisionista", riconducendo anzi l'origine della nazione al periodo romano e saltando a piè pari un millennio di storia meridionale. Il governo fascista ebbe l'indiscutibile merito di cercare di innescare un meccanismo di recupero economico della realtà meridionale, ma da un punto di vista storico insabbiò ancor di più la questione meridionale, ritenendola inutile e dannosa nell'impianto culturale del regime.
c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra, mantenne intatto, in sostanza, l'impianto di pubblica istruzione del periodo fascista.
La nazione emergeva, non bisogna dimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lotta avevano, con la Repubblica di Salò, diviso in due l'Italia, il movimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (erano gli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente il momento di sollevare dubbi sulla veridicità della storia risorgimentale e alimentare così tesi separatiste.
Si è arrivati in questo modo ai giorni nostri, dove ancora adesso, in molti libri scolastici, la storia d'Italia e del meridione in particolare è vergognosamente mistificata.
In campo economico la visione che si dette del Regno delle due Sicilie fu, se possibile, ancora più lontana dalla realtà effettuale.
Il Sud borbonico, come ci riporta Nicola Zitara era: "Un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piú avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d'industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). (...) Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell'economia nazionale".
In realtà il problema centrale dell'intera vicenda è che nel 1860 l'Italia si fece, ma si fece malissimo. Al di là delle orribili stragi che l'unità apportò, le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima i guasti di un processo di unificazione politica dell'Italia che fu attuato senza tenere in minimo conto le diversità, le esigenze economiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivano aggregate.
La formula del "piemontismo", vale a dire della mera e pedissequa estensione degli ordinamenti giuridici ed economici del Regno di Piemonte all'intero territorio italiano, che fu adottata dal governo, e i provvedimenti "rapina" che si fecero ai danni dell'erario del Regno di Napoli, determinarono un'immediata e disastrosa crisi del sistema sociale ed economico nei territori dell'ex Regno di Napoli e il suo irreversibile collasso.
D'altronde le motivazioni politiche che avevano portato all'unità erano – come sempre accade – in subordine rispetto a quelle economiche.
Se si parte dall'assunto, ampiamente dimostrato, che lo stato finanziario del meridione era ben solido nel 1860, si comprendono meglio i meccanismi che hanno innescato la sua rovina.
Nel quadro della politica liberista impostata da Cavour, il paese meridionale, con i suoi quasi nove milioni di abitanti, con il suo notevole risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva un boccone prelibato.
L'abnorme debito pubblico dello stato piemontese procurato dalla politica bellicosa ed espansionista del Cavour (tre guerre in dieci anni!) doveva essere risanato e la bramosia della classe borghese piemontese per la quale le guerre si erano fatte (e alla quale il Cavour stesso apparteneva a pieno titolo) doveva essere, in qualche modo, soddisfatta.
Descrivere vicende economiche e legate al mondo delle banche e della finanza, può risultare al lettore, me ne rendo conto, noioso, ma non è possibile comprendere alcune vicende se ne conoscono le intime implicazioni.
Lo stato sabaudo si era dotato di un sistema monetario che prevedeva l'emissione di carta moneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d'oro e d'argento insieme alle cosiddette "fedi di credito" e alle "polizze notate" alle quali però corrispondeva l'esatto controvalore in oro versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie.
Il problema piemontese consisteva nel mancato rispetto della "convertibilità" della propria moneta, vale a dire che per ogni lira di carta piemontese non corrispondeva un equivalente valore in oro versato presso l'istituto bancario emittente, ciò dovuto alla folle politica di spesa per gli armamenti dello stato.
In parole povere la valuta piemontese era carta straccia, mentre quella napolitana era solidissima e convertibile per sua propria natura (una moneta borbonica doveva il suo valore a se stessa in quanto la quantità d'oro o d'argento in essa contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale).
Quindi cita ancora lo Zitara: "Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete d'oro e d'argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d'emissione sarda - che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni - avrebbe potuto costruire un castello di cartamoneta bancaria alto tre miliardi. Come il Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino (titolari e fondatori della banca, che sarebbe poi divenuta Banca d'Italia) non tessevano e non filavano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l'unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'erano messi".
A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete per trasformarle in carta moneta così come previsto dall'ordinamento piemontese, poiché in tal modo i banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e avrebbero potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano (benché ai due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancora per qualche anno). Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre passò nelle casse piemontesi.
Tuttavia nella riserva della nuova Banca d'Italia, non risultò esserci tutto l'oro incamerato (si vedano a proposito gli Atti Parlamentari dell'epoca).
Evidentemente parte di questo aveva preso altre vie, che per la maggior parte furono quelle della costituzione e finanziamento di imprese al nord operato da nuove banche del nord che avrebbero investito al nord, ma con gli enormi capitali rastrellati al sud.
Ancora adesso, a ben vedere, il sistema creditizio del meridione risente dell'impostazione che allora si diede. Gli istituti di credito adottano ancora oggi politiche ben diverse fra il nord ed il sud, effettuando la raccolta del risparmio nel meridione e gli investimenti nel settentrione.
Il colpo di grazia all'economia del sud fu dato sommando il debito pubblico piemontese, enorme nel 1859 (lo stato più indebitato d'Europa), all'irrilevante debito pubblico del Regno delle due Sicilie, dotato di un sistema di finanza pubblica che forse rigidamente poco investiva, ma che pochissimo prelevava dalle tasche dei propri sudditi. Il risultato fu che le popolazioni e le imprese del Sud, dovettero sopportare una pressione fiscale enorme, sia per pagare i debiti contratti dal governo Savoia nel periodo preunitario (anche quelli per comprare quei cannoni a canna rigata che permisero la vittoria sull'esercito borbonico), sia i debiti che il governo italiano contrarrà a seguire: esso in una folle corsa all''armamento, caratterizzato da scandali e corruzione, diventò, con i suoi titoli di stato, lo zimbello delle piazze economiche d'Europa.
Scrive ancora lo storico Zitara: "La retorica unitaria, che coprì interessi particolari, non deve trarre in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all'intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l'uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un'autosconfessione. Quando, alle fine, quelle "innovazioni", vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo.
Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non avevano bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate.
L'agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all'esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò una crescita smodata e incontrollabile e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali".
Per contro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastri economici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana, principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogi per l'assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo al Nord mentre il Sud finì per pagare sia le spese della guerra d'annessione, sia i costi divenuti astronomici dell'ammodernamento del settentrione.
Il governo di Torino adottò nei confronti dell'ex Regno di Napoli una politica di mero sfruttamento di tipo "colonialista" tanto da far esclamare al deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: "Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala".
La politica dissennatamente liberistica del governo unitario portò, peraltro, la neonata e debolissima economia dell'Italia unita a un crack finanziario.
Le grandi società d'affari francesi ed inglesi fecero invece, attraverso i loro mediatori piemontesi, affari d'oro.
Nel 1866, nonostante il considerevole apporto aureo delle banche del sud, la moneta italiana fu costretta al "corso forzoso" cioè fu considerata dalle piazze finanziarie inconvertibile in oro. Segno inequivocabile di uno stato delle finanze disastroso e di un'inflazione stellare. I titoli di stato italiani arrivarono a valere due terzi del valore nominale, quando quelli emessi dal governo borbonico avevano un rendimento medio del 18%.
Ci vorranno molti decenni perché l'Italia postunitaria, dal punto di vista economico, possa riconquistare una qualche credibilità.
L'odierna arretratezza economica del Meridione è figlia di quelle scelte scellerate e di almeno un cinquantennio di politica economica dissennata e assolutamente dimentica dell'ex Regno di Napoli da parte dello stato unitario.
Si dovrà aspettare il periodo fascista per vedere intrapresa una qualche politica di sviluppo del Meridione con un intervento strutturale sul suo territorio attraverso la costruzione di strade, scuole, acquedotti (quello pugliese su tutti), distillerie ed opifici, la ripresa di una politica di bonifica dei fondi agricoli, il completamento di alcune linee ferroviarie come la Foggia-Capo di Leuca, - iniziata da Ferdinando II di Borbone, dimenticata dai governi sabaudi e finalmente terminata da quello fascista.
Ma il danni e i disastri erano già fatti: una vera economia nel sud non esisteva più e le sue forze più giovani e migliori erano emigrate all'estero.
Nonostante gli interventi negli anni '50 del XX secolo con il piano Marshall (peraltro con nuove sperequazioni tra nord e sud), '60 e '70 con la Cassa per il Mezzogiorno e l'aiuto economico dell'Unione Europea ai giorni nostri, il divario che separa il Sud dal resto d'Italia è ancora notevole.
La popolazione dell'ex Regno di Napoli, falcidiata dagli eccidi del periodo del "brigantaggio", stremata da anni di guerra, di devastazioni e nefandezze d'ogni genere, per sopravvivere, darà vita alla grandiosa emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell''800, che continuerà, con una breve inversione di tendenza nel periodo fascista e una diversificazione delle mete che diventeranno il Belgio, la Germania, la Svizzera, fin quasi ai giorni nostri.
Il Sud pagherà, ancora una volta, con il flusso finanziario generato dal lavoro e dal sacrificio degli emigranti meridionali, lo sviluppo dell'Italia industriale.
Ritengo, in conclusione, che sia un diritto delle gente meridionale riappropriarsi di quel pezzo di storia patria che dopo il 1860 le fu strappato e un dovere del corpo insegnanti dello stato favorire un'analisi storica più oggettiva di quei fatti che tanto peso hanno avuto ed hanno ancora nello sviluppo sociale del Paese, anche attraverso una scelta dei testi scolastici più oculata ed imparziale.
La guerra fra il nord ed il sud d'Italia non si combatte più sui campi di battaglia del Volturno, del Garigliano, sugli spalti di Gaeta o nelle campagne infestate dai "briganti", ma non per questo è meno viva; continua ancora oggi sul terreno di una cultura storica retriva e bugiarda che, alimentando una visione del sud "geneticamente" arretrato, produce un'ulteriore frattura tra due "etnie" che non si sono amate mai.
Il dibattito ancora aperto e vivace sull'ipotesi di una Italia federalista, i toni accesi del Partito della Lega Nord, una certa avversione, subdola ma reale, tra la gente del nord e quella del sud, nonostante il "rimescolamento" dovuto all'emigrazione interna, testimoniano quanto queste problematiche, nate nel 1860, siano ancora attualissime.
Oggi l'unità dello stato, in un periodo dove il progresso passa attraverso enti politico-economici sopranazionali come la Comunità Europea, è certamente un valore da salvaguardare, ma al meridione è dovuta una politica ed una attenzione particolari, una politica legata ai suoi effettivi interessi, che valorizzi le sue enormi risorse e assecondi le sue vocazioni, a parziale indennizzo dei disastri e delle ingiustizie che l'unità vi ha apportato.
L'enorme numero di morti che costò l'annessione, i 23 milioni di emigrati dal meridione dell'ultimo secolo, che hanno sommamente contribuito, a costo di immani sforzi, alla realizzazione di un'Italia moderna e vivibile, meritano quel concreto riconoscimento e quel rispetto che per 140 anni lo Stato, attraverso una cultura storica mendace, gli ha negato e che oggi gli eredi della Nazione Napoletana reclamano.
di CARLO COPPOLA
"Controstoria dell'Unità d'Italia"
M.C.E. Editore
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