I quarant’anni delle baby pensioni, il simbolo di tutti gli sprechi d’Italia
28/12/2013 ROBERTO GIOVANNINI Chissà che fine ha fatto la signora Francesca Zarcone di Lissone, in provincia di Como.
Oggi quella che può essere considerata una delle recordwomen della pensione baby – il merito di averla scovata qualche anno fa spetta al grandissimo Gian Antonio Stella del Corriere della Sera – ha esattamente 62 anni e mezzo, visto che è nata in un paesino in provincia di Messina nel non troppo lontano luglio del 1951.
Quanto a pensione baby, la signora Zarcone è davvero una primatista: sta in pensione, beata, dall’agosto del 1983. Allora aveva soli 32 anni, e aveva lavorato in tutto, tra privato e pubblico, neanche 17 anni.
Meglio di lei aveva fatto però un’altra ex-bidella, stavolta friulana, Ermanna Cossio. I suoi quindici anni di lavoro era riuscita a completarli a soli 29 anni di età. Era rimasta incinta, e invece di andare in maternità decise di andare in pensione, visto che la legge glielo permetteva.
Oggi Ermanna Cossio ha appena compiuto sessanta anni: è pensionata da 30 anni.
Di questo - e di molto altro – bisogna ringraziare il governo in carica quarant’anni fa: il 23 dicembre del 1973 presidente del Consiglio era il democristiano Mariano Rumor, ministro del Tesoro un politico considerato un severo custode del rigore come Ugo La Malfa.
Erano i tempi del primo “shock petrolifero” dopo la guerra del Kippur tra Egitto, Siria e Israele: il 2 dicembre sempre Rumor aveva varato le domeniche a piedi, con i cinema chiusi alle dieci e la tv oscurata prima delle undici. Rigore e cinghia stretta che invece non ritroviamo nel decreto del Presidente della Repubblica 1092. Quello che ha permesso a centinaia di migliaia di italiani dipendenti pubblici di poter andare in pensione con 14 anni, sei mesi e un giorno di attività lavorativa se donne con prole; 19 anni, sei mesi e un giorno per gli uomini; 24 anni, sei mesi e un giorno per i dipendenti degli enti locali.
Una follia economica, una grandissima ingiustizia durata quasi venti anni (fu abolita da Giuliano Amato nel 1992) ma che paghiamo tuttora. Uno dei simboli più pregnanti della rovina dell’Italia.
Sono numeri, quelli che abbiamo incontrato finora, da capogiro. Che raccontano una realtà che oggi, nel 2013, ci è totalmente incomprensibile.
Le due baby pensionate che abbiamo citato hanno smesso di lavorare a un’età anagrafica (30 anni circa) in cui nell’Italia del 2013 una loro coetanea di oggi forse spera di cominciare ad affacciarsi sul mercato del lavoro.
Secondo un rapporto di Confartigianato del 2011, oggi sono 531.752 le pensioni di vecchiaia e di anzianità “attive” concesse in base al Dpr 1092. In media i baby pensionati ricevono un assegno di circa 1.500 euro lordi al mese, che non è affatto male, visto che l’assegno lo incassano per oltre trenta o quarantanni pur avendo versato pochissimi contributi. Il 78,6% sono dipendenti pubblici; di questi più della metà (il 56,5%) sono donne.
Sono soprattutto persone che vivono al Nord (il 62,5%). Quando votarono questo provvedimento, che ovviamente voleva essere uno dei tanti provvedimenti generosi e acchiappaconsenso, i politici del 1973 non calcolarono per bene i paradossi degli effetti matematici dei sistemi economici nel lungo periodo.
Tu li per lì non ci pensi: la cifra annuale da spendere per queste pensioni è poca cosa, l’economia italiana è in piena occupazione, il Pil cresce da anni al ritmo del 5-6% annuo (questa era l’Italia degli anni ’70...) e poi magari tra un po’ si può intervenire per correggere. In fondo, sempre nel 1973, il rapporto debito/Pil dell’Italia era intorno al 30%. Roba ridicola. Senonché nessuno è intervenuto. Le pensioni baby sono continuate ad aumentare. Quando Amato le ha abolite, certamente nulla è stato fatto per far pagare almeno un po’ ai pensionati baby l’eccezionale regalo che avevano ricevuto.
Il rapporto debito/Pil è oggi al 128%. L’economia è stagnante. In pensione ci si va dopo 42 anni di lavoro (in teoria). E secondo alcune stime, considerando la maggiore spesa sopportata anno dopo anno e la minore contribuzione incassata, le baby pensioni sono costate allo Stato 163,5 miliardi. Solo considerando le rendite che stiamo pagando noi oggi a chi ovviamente ha utilizzato una scappatoia legale ancorché iniqua, si tratta di 9,5 miliardi l’anno. Il disastro dell’Italia di oggi è fatto da tante storie come quella delle baby pensioni. Scelte sbagliate, cui si è rimediato male e senza coraggio o a volte non si è rimediato per niente. Il conto lo stiamo pagando noi, e continueranno a pagarlo i nostri figli.
domenica 29 dicembre 2013
E poi sono i giovani che nn hanno voglia di lavorare?!!
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