mercoledì 25 gennaio 2012

Lingua e cultura d'Italia

Vi sembrerò ripetitivo, però vale la pena pubblicare una intervista del nostro carissimo professor Sergio Gilardino, sulla lingua piemontese. Saluti amici cari. consiglierei di leggerala... Battista.

Incontro con il piemontese (1): Sergio Gilardino e la differenza tra lingua e dialetto

luglio 12, 2011 di Sara Bauducco

“Io parlo, leggo e scrivo il piemontese prima di tutto perché è la lingua dei miei genitori e dei miei antenati, secondariamente perché – tra tante lingue studiate ed utilizzate – è l’unica che mi sia veramente spontanea e, in terzo luogo, perché mi alimenta con una letteratura che è densa dei luoghi della mia infanzia, dei detti della mia gente, delle figure retoriche classiche, ma risonanti di vita radicata in un luogo, perché mi rigenera e mi salva dall’alienazione e dall’estraneamento. È lingua mia, fatta poesia. Senza il piemontese sarei letterariamente, identitariamente e linguisticamente solo una frazione di quello che invece mi sento di essere con questa lingua abbinata alle altre nel mio dialogo ininterrotto con popoli e scrittori”. Così Sergio Gilardino, cittadino canadese e grande conoscitore di lingue ancestrali, descrive la propria passione per il piemontese.

Nato in una cascina della bassa vercellese al termine della seconda guerra mondiale, in ambiente esclusivamente piemontofono, Gilardino alle elementari è stato ripetutamente bocciato come “afasico e incapace di imparare la lingua nazionale”; nonostante ciò, è diventato il primo della sua graduating class, ha ottenuto il diploma di media superiore a San Francisco nel ’63 e poi il diploma di liceo linguistico nel ‘65 in Piemonte, con la media del 9. Il suo percorso scolastico è proseguito con la laurea in Lingue e Letterature germaniche alla Bocconi nel ‘70 e con il dottorato in Lingue e Letterature romanze ad Harvard nel ‘76; da allora, e fino al 2005, ha tenuto la docenza di Lingue e Letterature comparate all’università McGill di Montréal. Già direttore dei lavori per il grande dizionario enciclopedico della lingua Walser (2008), ora è impegnato nella compilazione del dizionario della lingua provenzale alpina e per questo ha scelto di vivere a Comboscuro, dove questa lingua è quotidianamente parlata e insegnata ai più piccoli.

Perché studiare il piemontese o altre lingue locali e dialetti in un’epoca in cui impera l’inglese come “lingua senza frontiere”?


La lezione sull’importanza sociale ed economica, prima ancora che culturale, delle lingue ancestrali l’ho ricevuta in Canada, Paese che ha conosciuto una révolution tranquille alla fine degli anni Sessanta per il riconoscimento del francese come lingua paritaria non solo nel Québec, ma dovunque nella federazione canadese. Il Canada, nei suoi cinquant’anni di bilinguismo ufficiale, ha grandemente beneficiato di questa politica multilinguistica, estesa rapidamente al riconoscimento di varie lingue amerindiane e minoritarie (tra cui l’italiano).

L’eredità linguistica italiana, in fatto di lingue ancestrali, non ha confronti in Europa e ancor oggi – nonostante la morte di moltissime delle sue lingue minoritarie nel corso degli ultimi 150 anni – essa primeggia per varietà, ricchezza e specificità di lingue regionali. Rivitalizzarle o ritardarne la perdita almeno fino a quando siano state debitamente codificate, significa – da un lato – salvare una parte integrante del patrimonio etnico-culturale dell’Italia, dall’altro offrire ai giovani un valido stimolo al multilinguismo. La conoscenza e/o lo studio di una lingua ancestrale hanno riverberazioni immediate sulla capacità dei giovani ad affrontare il mondo multilingue che li aspetta al di fuori dei sempre più angusti confini nazionali, al di fuori dei quali parlare più lingue, grandi e piccole, non è solo un’expertise, ma un’attitudine mentale indispensabile per la sopravvivenza.

L’inglese è anche una lingua ancestrale, ma a livello internazionale è un codice per alberghi, aeroporti e borse valori: la lingua ancestrale non solo non ne ostacola l’apprendimento, ma lo facilita enormemente, perché a confronto della sua straordinaria ricchezza idiomatica il globish (global English) è una lingua relativamente povera e facile da imparare.

Lei ha vissuto in diversi Paesi, per molti anni è stato docente in Canada, ma da piemontese è innamorato di questa lingua…


Vi sono due modi assai diversi di intendere l’espressione “lingua piemontese”. Come avviene con tutte le lingue, dalle più prestigiose alle più piccine, nella cerchia familiare i bimbi imparano solo un certo numero di parole e di espressioni. Mentre per le lingue nazionali la frequenza scolastica, la società e i mass-media, via via, forniscono ampliamenti lessicali notevoli, che integrano la base fornita dall’ambiente domestico, per il “dialetto” questo non è oramai più il caso: né la scuola, né l’ambiente circostante, né stampa-radio-tv-internet, lo arricchiscono in prosieguo di tempo. Ciò induce molti (inclusi quelli che parlano il piemontese in una delle sue varianti) a ritenere che non esista altro lessico che quello imparato in casa. Da qui il famigerato discrimine “lingua/dialetto”: si parla in dialetto di poche cose con poche persone, si parla in lingua di molte cose con molte persone. La realtà è che già i dizionari del piemontese nell’Ottocento (Sant’Albino, Zalli, Ponza, Pasquali, Gavuzzi, ecc.) ci presentano una panoplia lessicale di diecine e diecine di migliaia di parole, anche tecniche, politiche, militari e giuridiche, che esorbitano del tutto dalla gamma lessicale di chi il piemontese l’ha sempre e solo conosciuto come lingua dell’oralità. Gianfranco Gribaudo, autore di uno dei più ricchi ed utili dizionari del piemontese nei nostri tempi, ha annotato a mano 10.000 aggiunte alla quarta edizione del Neuv Gribàud e altrettante ne ha annotate Tòni Baudrìe (noto lirico in provenzale e in piemontese) all’ultima edizione del Gavuzzi.

Questo è l’altro volto del piemontese: lingua codificata (dizionari, antologie e grammatiche dalla fine del Settecento), lingua di re, di eserciti, di nobiltà e borghesia, di giornalismo, di romanzi, di prosa d’arte, di teatro, di civiltà e identità “nazionali”. Questo è il volto molto meno conosciuto, per cui quando si parla di “lingua sabàuda” molti non capiscono neppure a cosa si allude, inclusa la maggior parte di coloro che parlano il piemontese. Non sanno che ci sono grammatiche, dizionari, opere e studi sulla sintassi, sulla stilistica, sulla metrica. Il problema è che non lo sanno neppure i docenti e gli insegnanti, e questo è più grave, anche perché i pareri, le convinzioni, le scelte che contano sono i loro. Non sanno e non si curano di sapere che per “lingua sabauda” ci si riferisce ad una lingua millenaria (i primi documenti sono datati tra la fine del decimo secolo e l’inizio dell’undicesimo) che possiede più di centoventimila lemmi, sparpagliati in più di 70 dizionari compilati sull’arco degli ultimi tre secoli (Sette, Otto e Novecento), con un patrimonio letterario di tutto riguardo.

Molti italianisti, dottissimi nel proprio campo, ma punto in quello delle lingue ancestrali, si ritengono autorizzati a parlare ex catedra dei “dialetti”, come se questi fossero un aspetto degenere del linguaggio degli italiani cui essi debbono rimediare. Parlare il “dialetto” o parlare l’italiano, intercalando parole dialettali, è parlare male. Il rimedio è lo studio dell’italiano. Sono fermamente convinti che il piemontese, o qualsiasi altra lingua regionale, si riduca a quelle poche parole superstiti che ancora si intendono sulle labbra degli anziani. Proprio per questo lo definiscono il piemontese un “dialetto”.

Di dialettale, in queste valutazioni, c’è solo la loro cultura monolingue, ferma a vetusti principi rinascimentali, già ampiamente superati da Charles De Brosses, Melchiorre Cesarotti e Samuel Johnson nella seconda metà del Settecento e del tutto risibili se parametrati agli insegnamenti dei grandi field linguists britannici, statunitensi, canadesi, russi dei giorni nostri. Mentre la comunità scientifica internazionale ha prodotto e continua a produrre diecine di libri sulle lingue ancestrali e sulla loro conservazione, la linguistica campale italiana non ha prodotto una sola opera di breccia sulla rivitalizzazione/resuscitazione linguistica.

Quando Luca Serianni (Accademico della Crusca e dei Lincei) afferma che il “dialetto non deve essere insegnato nelle scuole”, Umberto Eco che il “dialetto” usato per argomenti seri lo fa ridere, Roberto Benigni che i concetti che lui esprime a proposito della Divina Commedia non possono essere detti in “dialetto”, rivelano un concetto che è simile a quello di chi, per farsi un’idea dell’italiano, andasse ad ascoltare i nipotini degli emigranti italiani in Australia o in Canada e pensasse che quelle poche frasi spezzate e parole residue siano tutto l’italiano.

Il malinteso è così grossolano, banale, madornale, che passa anche la voglia di mettersi a dare schiarimenti: la cultura accademica italiana è preparata e aggiornata in molti campi, ma decisamente non in quello della linguistica ancestrale. I giovani linguisti italiani veramente preparati (ve ne sono diversi e con diversi intrattengo un carteggio) hanno studiato all’estero e lì vivono ed insegnano. In patria non hanno né accoglienza, né futuro.

Beninteso, il problema è più radicato e ben più vasto. È ombelicalmente connesso con la nozione che gli intellettuali italiani hanno di “popolo”: ci potremmo tirare dentro il concetto del latino “lingua che sola può esprimere l’eccellenza letteraria” e, quello ad esso strettamente collegato, della chiesa che non riteneva che le lingue del popolo fossero atte a veicolare i messaggi biblici. Sono visioni che – con vari adeguamenti e apparenti concessioni – sono arrivate fino ai nostri giorni.

Gli intellettuali responsabili per le politiche linguistiche italiane hanno un concetto completamente errato delle lingue ancestrali: non sanno cos’è il nucleo lessicale storico, non sanno cos’è la specificità lessico-idiomatica, non parlano, non leggono e non scrivono nessuna lingua ancestrale, non hanno mai passato anni delle loro vite a codificare con metodologie induttive e sinonimiche i tesori già segnalati da Graziadio Isaia Ascoli 150 anni fa, ma – nonostante tutto ciò – si sentono autorizzati a dare pareri in qualità di esperti ai legislatori e ai dirigenti scolastici senza avere per guida altro che il loro inveterato horror dialecti.

Il problema si perpetua perché chi non sa è chiamato a prendere decisioni e chi sa viene ostracizzato come “dialettofono”: e nel frattempo svaniscono nel nulla gli ultimi tesori del patrimonio linguistico italiano.
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